mercoledì 25 agosto 2010

Un lungo viaggio per il Brasile

Ogni viaggio mi regala sempre nuove e indimenticabili emozioni, e mi lascia la voglia di ripartire subito ma soprattutto di ritornare in quei posti lontani e magici.
Ogni viaggio mi toglie anche tanto. Mi toglie l’equilibrio, l’armonia, l’incapacità di tornare indietro e di guardare le cose come prima.
Perché un viaggio finisce e si ritorna alla vita di sempre, ma non si è più noi stessi: la realtà non è cambiata ma noi siamo cambiati.
Dopo questo viaggio di tre settimane, ho perso la forma datami dalle circostanze e dall’ambiente in cui routinariamente vivevo, per espandermi più verso l’infinito e l’eternità dello spirito.
Ho capito quanto l’essere umano sappia incredibilmente adattarsi con il tempo a qualsiasi ambiente e cambiamento, sia in meglio che in peggio. E’ lo spirito di sopravvivenza, ma costa fatica, è stressante e non facile.
Per questo molti non lasciano mai il proprio nido costruito, la propria ancora di salvezza.
In questi venti giorni ho conosciuto un’altra faccia del Brasile, le altre mille facce dell’ eterogeneo Brasile. E’ stato come levarsi delle bende che fasciavano da tempo gli occhi, e cominciare a vedere. Ho sentito rinascere, prima timidamente ma poi vigorosa e invadente come un rampicante, quella vivacità e curiosità per il nuovo, quella voglia di novità che fa sentire più vivi.
È stato come prendere improvvisamente al bivio un’altra strada.
Montagne, mari, musica, amici, persone, spiagge, birra... e io, che non sono più io dimentico il mio passato.
Rio de Janeiro è magica, è fascinosa come una donna seducente e prosperosa. Ammalia e innamora.
Il mare di Ipanema è verde turchese, la notte a Lapa cattura con la samba e l’allegria dei cariocas, le montagne maestose sembrano guardiane della città, con le innumerevoli favelas silenti e dimenticate che si accendono di notte.
Salvador è l’anima più nera e ancestrale del Brasile. È terra, è ritmo di tamburi, è odore acre e forte che riempie le narici, è colore, è schiettezza.
Noronha è un sogno a occhi aperti, a partire dal volo su un aereo a eliche che sfiora e trapassa le sofficini nuvole bianche, sorvolando l’oceano.
L’isola si materializza improvvisamente dopo un’ora di volo.
Sembra un lembo di terra dimenticato da Dio e dagli uomini, una sporgenza montuosa spuntata dagli abissi dell’oceano.
Le spiagge sembrano candide fanciulle, vergini e pure. Il mare le accarezza con le sue acque più azzurre e trasparenti, e mostra i suoi tesori nascosti e le sue creature dai mille colori fosforescenti, intrepide e noncuranti dei bagnanti.
Poi si torna. Parnaiba sembra ancora più vuota e deserta di domenica. Le strade non sembrano strade senza auto in circolo, le case non sembrano abitate, il cielo azzurro e afoso sembra opprimente e di carta disegnata.
Mi manca l’aria, mi manca l’orizzonte, mi mancano le risate notturne dei ragazzi ubriachi per strada.
Niente sembra cambiato da quando me ne sono andata. Il mondo non è cambiato anzi sembra essersi fermato. Invece io…
Sono insofferente, senza stimoli, più sola che mai con la mia esperienza anche in mezzo ad altra gente.
Dove sono non so più, cosa sto facendo, e con chi e perché. Un’amnesia?
Le mie pupille si devono riabituare all’oscurità, dopo la luce, per vederci meglio.
E capisco che non ho niente in comune ai brasiliani nordestini, o che non ho ancora imparato niente, perché loro sono tranquillii, molto pazienti e sanno aspettare senza fretta.
Io invece scalpito insofferente nell’attesa estenuante. Nell’attesa di riambientarmi e ritornare forzatamente nella mia vecchia forma.

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