lunedì 13 settembre 2010

Belem la meta del cuore.

Belem, conosciuta come la porta dell’amazzonia, è molto di più che un posto carino da visitare.
Il mio viaggio è stato un viaggio della speranza, una ribellione dai pensieri negativi che mi stavano imbruttendo per cercare la felicità e l’armonia perduta.
Ho trovato tutto questo e molto di più.
Non finirò mai di stupirmi di fronte a questo incredibile popolo brasiliano, dal cuore grande e aperto a tutti.
Non voglio parlare degli itinerari turistici da visitare, per quello qualsiasi guida è utile.
La mia commozione è dovuta a tutte le persone che fin dal primo giorno ho incontrato e conosciuto per strada.
Viaggiare da soli regala tante emozioni: il piacere della scoperta e della conquista, il riscoprirsi curiosi e pieni di energia.
Forse per una ragazza ci sono molti rischi, ma anche tanti privilegi.
Tutti vogliono aiutarmi, consigliarmi, mettermi in guardia, proteggermi.
Fin dal primo incontro ci si gioca tutto, ci si apre e ci si vuole bene incondizionatamente.
Si finisce a passare ore insieme, e poi condividere avventure.
Ci si incontra per caso e si resta insieme per volontà e per amore.
Ogni giorno ho fatto nuove conoscenze, e ognuna di queste mi ha regalato qualcosa, tra cui rispetto, altruismo, generosità e amore per il prossimo e per la vita.
È tutto così facile qua, nonostante i problemi, la povertà poiché la vita è sempre bella.
La vera ricchezza è la felicità interiore, di spirito.
Qualsiasi cosa possa accadere è questa fede che dà forza per andare avanti a testa alta.
C’è tanta solidarietà, tanta fratellanza anche verso una sconosciuta straniera con la pelle chiara, che spesso suscita molti pregiudizi.
Ci si racconta tutta la vita, le sofferenze e gli ostacoli, e poi le soddisfazioni e i successi, e ci si avvicina tanto da poter sentire i battiti del cuore.
Si dà veramente quando si offre se stessi.
Il culmine sorprendente di questa mia vacanza è stata Marajò, l’isola a 4 ore di barca da Belem nel delta del fiume.
La mia voglia iniziale di lasciare la città, gli amici, le feste, per isolarmi un’altra volta, era davvero bassa.
Sulla nave che parte alle 6:30 del mattino ho conosciuto un ragazzo timido, David.
Si è offerto di darmi un passaggio fino alla spiaggia, dato che lui abita vicino con la sua famiglia.
È venuto a prenderlo al porto suo zio in moto.
All’inizio mi sono sorpresa perché pensavo non ci fosse posto per tre in moto. Mi sbagliavo.
Arrivati a casa sua, conosco sua mamma di 70 anni, che abita senza marito ma con l’altro figlio maggiore.
Vicino a casa sua abitano sua sorella e l’altra figlia con la sua famiglia.
Circondati da alte palme di açaì, alberi da frutto, completamente dentro la foresta selvaggia e la natura.
Mi offre il pranzo, un letto per riposare, mi invita a dormire lì la notte.
Così alla fine ho passato il mio breve soggiorno in casa loro come sacro ospite.
David mi ha portato prima in moto per le spiagge, poi in bicicletta per sentieri che si aprivano in piscine naturali in mezzo agli alberi, in cui abbiamo fatto il bagno.
Ho conosciuto e assaggiato tutti i gustosi frutti dell’isola.
Nella frescura del tardo pomeriggio tutti i ragazzi si incontrano per giocare una partita di calcio.
Mi sento entrare nel profondo della vita di questa comunità di isolani, e dimentico le spiagge che erano la mia meta iniziale.
Il giorno dopo tutti si alzano all’alba. Io cerco di non sentire i rumori della cucina ma alle 8 mi alzo pigramente.
Passo quasi tutta la mattina nel cortile della casa della zia di David, anche lei settantenne, chiacchierando e soprattutto ascoltando la sua vita avventurosa.
Mi mostra le sue galline, tra cui una che si è ammalata e non riesce più a mangiare.
Probabilmente gli è entrato un insetto in gola e ora sta sempre con il becco aperto lamentandosi e scrollando il collo e la testa.
Infine accompagnata da David e da una banda di ragazzini arriviamo a un fiume che passa in mezzo agli alberi, tra i tronchi e le radici.
Sembra un mondo incantato, dove gli elementi terra e acqua si mescolano e si confondono.
Le fronde delle palme coprono il cielo come un tetto.
La luce del sole a malapena filtra tra le larghe e fitte foglie.
Entriamo in canoa e proseguiamo nell’acqua che sembra uno specchio spingendo con un bastone sul fondo.
Ci facciamo strada tra rami, liane e tronchi. Tutto è verde e sembra uno spaccato dell’amazzonia.
I ragazzi si tuffano in acqua lanciandosi da un tronco alto.
A pranzo provo la manisoba, piatto tipico del Parà, preparato con foglie di mandioca e interiore di porco, cucinato e cotto per 4 giorni: una delizia!
Ma arriva il momento di ripartire.
Mi regalano 2 ananas dolcissime che lì crescono ovunque.
Sulla nave del ritorno sorrido, nonostante la forte tempesta che ci sbatte e agita il mare.
Non avrei immaginato di poter passare un giorno tanto intenso.
Sono rimasta sorpresa dall’ospitalità di questa famiglia umile e povera, che mi ha accolto in casa come se fossi una figlia pur non conoscendomi.
Mi hanno offerto tutto quello che avevano, senza che io lo meritassi.
Ho pensato a come sarebbe in Italia, dove l’individualismo è considerato la chiave del successo e del vivere, mentre qua il gruppo e la comunità fanno la forza e sono indispensabili per la sopravvivenza del singolo.
Di tutta la mia vacanza ho un solo rimpianto: di non essere stata più tempo.
Potrei parlare ore di Belem, dell’açaì che si degusta come crema di accompagnamento, del mercato popolare Ver O Peso, incontro di mille persone che ridono, gridano, cantano, suonano e mangiano, delle feste notturne e delle serate passate scherzando con gli amici.
Tornare a Parnaiba dopo 20 ore di autobus, mi stringe il cuore come una morsa.
Sempre si deve tornare, ma il mio cuore è rimasto là.